Antonella Napoli: «Il giornalista ha il privilegio di essere nella storia»
Antonella Napoli è una giornalista che ha alle spalle un passato di articoli, reportage e saggi sul Libano, Siria, Birmania, India, Uganda, Congo, Sudan, Repubblica Centrafricana e altri stati africani, denunciando emergenze umanitarie e violazioni dei diritti umani. Ha ricevuto la Medaglia di rappresentanza della Presidenza della Repubblica e numerosi premi giornalistici, tra cui il prestigioso “Premio Franco Giustolisi – Verità e giustizia”. Dal 2019 è direttrice di “Focus on Africa”, prima iniziativa editoriale pura sul continente africano.
Il 20 maggio sarà al Salone del Libro per presentare “Le verità nascoste del delitto Attanasio”, pubblicato con la casa editrice All Around. A discuterne con lei ci saranno l’ex vice ministro degli Esteri Alfredo Mantica, la portavoce di Carta di Roma Paola Barretta, la giornalista e reporter in aree di crisi Laura Silvia Battaglia, conduttrice e autrice per Rai Radio3 Mondo. Modererà l’incontro il giornalista Gian Mario Gillio. Saranno inoltre presenti i familiari dell’ambasciatore e del carabiniere vittime dell’agguato nella Repubblica democratica del Congo del 22 febbraio 2021.
Gli incontri di Antonella Napoli però non si fermano qui, perché domenica 21 sarà presentato il nuovo numero cartaceo di Focus on Africa e lunedì 22, insieme all’Ordine dei giornalisti del Piemonte sarà protagonista di un corso di formazione sul fenomeno migratorio, con particolare attenzione alla comunicazione, alla narrazione utilizzata e alla deontologia. È a partire da questi incontri che abbiamo intervistato Antonella Napoli sul suo lavoro, sulla sua esperienza e più in generale sul ruolo del giornalismo nei nostri tempi e sull’importanza degli inviati, capaci ancora di andare a vedere le cose con i loro occhi e coglierne l’essenza.
Come è nato questo libro?
Sono due anni di lavoro. È stata un’inchiesta giornalistica investigativa. Sono stata più volte nei luoghi in cui tutto è accaduto e ho raccolto elementi, li ho messi insieme, ho letto tutte le carte delle indagini, fascicoli con migliaia di atti. Non è un libro che ho scritto a cuor leggero, avevo un peso emotivo, perché dentro c’è tutto, ci sono fatti, ricostruzioni, non teorie, ma testimonianze, anche accuse molto precise di testimoni autorevoli.
Questo lavoro è la dimostrazione che il lavoro giornalistico è fatto ancora da chi va a vedere le cose con i propri occhi.
Un giornalista questo fa: va a vedere come stanno le cose, chiaramente con le dovute precauzioni. Non si può fare improvvisando questo mestiere, bisogna affidarsi a persone competenti e stare in sicurezza, osservare, analizzare e raccontare, cercando di contestualizzare, dando spazio a tutte le sfaccettature delle vicende che si vanno a indagare e che si deve testimoniare. La parola giusta forse non è raccontare. ma testimoniare. In alcuni casi denunciare. Una frase di Pulitzer recita che un giornalismo fedele al suo scopo non si occupa di come stanno le cose, ma di come dovrebbero essere, è nell’indole e nella missione.
Lei dice che in alcuni si denuncia, ma denunciare fa anche paura. Basti pensare alle cosiddette querele temerarie.
Ne ho una che mi porto dietro dal dicembre del ’98. Adesso c’è in Parlamento una discussione nella commissione giustizia per valutare alcuni provvedimenti sulle proposte di legge per quanto riguarda le querele temerarie. Io stessa sono stata sentita in modo informale, perché sono un caso particolare, ho pendente una querela che si trascina tra penale (archiviata) e civile, ripresa con una citazione per danni; la prossima udienza è a novembre del 2023. Ne ho anche parlato a livello europeo, al sindacato europeo dei giornalisti. In Italia questa cosa è stata presa sottogamba a lungo e le proposte di legge arrivano con notevole ritardo. Credo non ci sia mai stata una volontà reale di andare fino in fondo, perché può andare a discapito di chiunque, di qualsiasi politico. Non è possibile che quando c’è un’archiviazione nel penale si possa andare ancora avanti e avvalere in sede civile. Un giornalista rischia di perdere tutto.
Cos’è per lei il giornalismo?
Nel 2019 ero in Sudan per seguire le proteste in corso contro il regime di Bashir, all’epoca dittatore al potere. Ero l’unica giornalista occidentale che seguiva la vicenda. I servizi di sicurezza mi tennero chiusa in una stanza per ore, poi ci fu l’intervento tempestivo dell’ambasciata che mi liberò dal sequestro. Una volta tornata da quell’esperienza ho fondato la rivista che dirigo.
Com’era il suo rapporto con Attanasio?
Lo conoscevo da anni, dai suoi primi passi in Farnesina, poi nella segreteria del viceministro Mantica. Lui aveva la delega per l’Africa e abbiamo condiviso tanto. Mi ha anche aiutato a scrivere un libro sui bambino soldato nella regione dei grandi laghi, tra Congo e Uganda. Lui si è occupato tanto dei bambini di strada, ha anche fondato un’associazione con sua moglie. Dopo l’agguato in cui ha perso la vita, la moglie ha scritto la prefazione del mio libro. A differenza di quest’ultimo libro, quello non era un libro su Luca ma con Luca e per Luca. Per la sua storia.
Lei ha anche incontrato il Papa e ha viaggiato con lui durante la sua visita in Africa.
Pensavo di aver visto tutto, di averne passate tante, ma lì mi sono emozionata, è stato bello, un impegno andato oltre il giornalismo, perché è nella storia quel personaggio. Eravamo in 78 in quel viaggio, hanno avuto tutti pochi secondi, ma io ho avuto due minuti di colloquio con lui e abbiamo parlato del mio lavoro e di Luca. Grazie a lui questi temi sono stati per un attimo sotto i riflettori dei media mainstream, è stato un viaggio che rimarrà nella storia. Ecco, credo che un privilegio che ha il giornalista è quello di trovarsi nella storia, non solo raccontarla ma esserne parte. Nessun altro ha questo privilegio, faccio il mestiere che ho sempre voluto fare e ho scelto come farlo. Da quel momento non ho più cambiato.
Il mestiere nel tempo però è cambiato. Lunedì nel corso di formazione dell’Ordine dei giornalisti si parlerà anche di questo.
Certo, non ci si approccia più al giornalismo come faceva la generazione passata, perché c’erano più ideali. Oggi credo sia più difficile, anche più tecnico, ma diverso. Un tempo c’era forse più formazione sul campo, ci si arrivava in modo meno scolastico, più passionale, ma oggi c’è sempre meno simpatia nei confronti dei giornalisti, bisogna stare all’erta rispetto alle fake news, che condizionano il lavoro non poco, e c’è tanto precariato. Non è concepibile che un giornalista venga pagato cinque euro a pezzo. Non dare il giusto valore a un impegno così, a un lavoro importante, con una responsabilità, è una cosa inaccettabile. Credo che degli elementi che pesano sulla nostra categoria è il modo in cui quello che facciamo investe sulla collettività. Si deve avere un senso critico e – come auspicava Pulitzer – si deve andare oltre all’aspetto delle cose che vediamo, dobbiamo mediare, filtrare le informazioni, perché non devono arrivare al lettore informazioni false o tendenziose, senza un contesto. Il lettore deve avere gli strumenti necessari per assimilare le informazioni in modo sempre corretto.
Eugenio Giannetta