Il reporter Jacek Hugo-Bader in Italia: «Bisogna abbracciare l’intervistato»
Jacek Hugo-Bader è un giornalista. Da trent’anni descrive la caduta dell’Impero sovietico. In Italia sono usciti per Keller i reportage Febbre bianca (trad. M. Borejczuk) e I diari della Kolyma (trad. M. Vanchetti). È nato a Sochaczew nel 1957, è stato insegnante in una scuola per ragazzi in difficoltà, ha lavorato in un negozio di alimentari, caricato e scaricato treni, è stato pesatore in un punto vendita di maiali, consulente matrimoniale e ha gestito una società di distribuzione. Dal 1991 è reporter per la «Gazeta Wyborcza», il più importante quotidiano polacco. Ha scritto numerosi reportage sull’ex Unione Sovietica, sull’Asia centrale, Cina, Tibet e Mongolia e vinto prestigiosi premi come il Grand Press nel 1999 e nel 2003, il Bursztynowego Motyla nel 2010 oltre all’English Pen Award. Sabato 15 luglio sarà ospite del festival Geografie sul Pasubio, un progetto della casa editrice Keller attento alle molte forme con cui si possono raccontare i territori, ma anche una sorta di scuola estiva di reportage che accoglie reporter e autori nazionali e internazionali.
Hugo-Bader in un’intervista con Avvenire uscita ieri per lanciare l’inizio del festival ha parlato di giornalismo, mettendo in risalto in particolare due aspetti: il rapporto con la distanza, con le suole consumate, e la relazione con l’altro: «Ai miei studenti spiego che anche il mezzo di trasporto che scegli influirà sul materiale che raccoglierai per il tuo reportage e quindi su quale libro scriverai. Ho fatto questa scoperta circa 30 anni fa, quando, subito dopo la caduta dell’Unione Sovietica, feci un lungo viaggio in tutte le ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. Ci andai in bicicletta. Ovviamente, come sempre, completamente solo. Là scoprii che la bicicletta è il miglior mezzo di trasporto per un reporter, perché vai avanti lentamente e non tralasci niente, hai il tempo di osservare tutto con calma, puoi fermarti in qualunque momento, parlare con chiunque, trattenerti e osservare la vita della strada».
Sul rapporto e l’empatia con l’altro, invece: «Nel viaggio di un reporter, la cosa più importante è quello che si viene a creare tra lui e le persone che incontra. Cerco in tutti i modi di far sì che le persone con cui riesco a entrare in contatto non provino disagio a causa di questo, nessun timore, paura o spavento. Senza il supporto della gente del posto semplicemente non riuscirei a sopravvivere. Agli studenti di giornalismo, a cui ogni tanto faccio lezione, dico che chiamo questo metodo “abbracciare il protagonista” del reportage. Quando abbracci qualcuno gli sei vicino nel modo più estremo. Non sei un giornalista arrivato per fare un’intervista. Io non uso nemmeno questa parola, mai: dico sempre alle persone, “vieni, parliamo”».