Ben Smith: «Ai giovani giornalisti un solo consiglio, fare scoop»
Ben Smith, primo direttore di “BuzzFeed News” e oggi fondatore e direttore di “Semafor”, il sito di news di maggiore innovazione nel business giornalistico degli ultimi anni, capace di raccogliere oltre 30 milioni di dollari di investimenti, è al Salone del Libro per parlare di informazione e giornalismo.
Su Avvenire di oggi è stato intervistato da Eugenio Giannetta. Di seguito riportiamo un estratto dell’intervista. L’intervista completa qui.
Il giornalista, nella nuova dimensione della comunicazione digitale, dovrebbe prestare maggiore attenzione ai suoi doveri: verifica delle fonti, continenza nel linguaggio, accuratezza della narrazione, rispetto della persona. Dove sta andando il giornalismo secondo lei?
L’abilità tradizionale del giornalista è trovare informazioni non ancora pubbliche e renderle pubbliche. Ma il modo in cui comunichiamo continua a cambiare e credo che i giornalisti di successo si trovino sempre più a loro agio con una connessione diretta con il pubblico, attraverso diversi media. Non sarà l’unico modo di fare giornalismo, ma credo che le persone in grado di comunicare direttamente per iscritto o in video, con accuratezza e trasparenza, abbiano abilità fondamentali.
Come possiamo ristabilire il rapporto fondamentale tra giornalismo, fiducia e comunità attraverso una nuova credibilità?
C’è stato uno spostamento a lungo termine del potere dalle istituzioni agli individui. I partiti politici, ad esempio, sono stati ampiamente sostituiti dai loro leader carismatici. Non sono sicuro che questo sia un bene per il giornalismo, ma è certamente una tendenza importante che i giornalisti e il giornalismo devono affrontare e credo che la risposta stia nel trovare il modo di allineare gli individui con un marchio di fiducia e di promuovere e puntare molto sulla reputazione di singoli giornalisti di fiducia.
Con l’avvento di internet c’è stato un tempo in cui il giornalismo sembrava essere incentrato solo sulle breaking news. Oggi, invece, sempre più redazioni ritornano al longform, sperimentando anche la cross-medialità.
Penso che il pubblico si stia ritirando dal caos dei social media, e che ci sia troppa offerta e poca domanda per le notizie incrementali. I lettori più sofisticati – e certamente il nostro pubblico di “Semafor” – sono affamati di contesto, di intelligenza e prospettive variegate per quanto riguarda le notizie attendibili. Credo che in questo momento ci sia un’enorme frammentazione nei media e quindi sono sicuro che ogni tipo di cosa andrà in direzioni diverse, ma credo che una di queste direzioni sia quella di conversazioni più ampie e ponderate.
Vorrei la sua opinione sul tema della libertà di stampa e sulle limitazioni al diritto di cronaca, sulla censura e sui continui attacchi e minacce ai giornalisti.
Si tratta di una tendenza globale, guidata da attori potenti che ritengono che la libertà dei media sia andata troppo oltre. Penso che ci siano aree – in particolare la privacy – in cui i giornalisti hanno dovuto modificare il loro approccio in base ai cambiamenti dell’opinione pubblica, ed è importante essere rispettosi dei valori culturali. Per esempio, penso sia ragionevole non usare i nomi completi delle persone, se poi una storia rimarrà per sempre su Google. Non credo che ci sia una soluzione facile alle minacce legali che incombono sul giornalismo, ma una importante è quella di trovare modelli di business sostenibili e solidi per il settore: le redazioni giornalistiche più esposte alle minacce sono quelle che stanno finendo i soldi.
Il pluralismo è ancora possibile oggi?
La grande tendenza dei media in questo momento è la frammentazione, che è una sorta di pluralismo. Dai podcast alle newsletter, stanno sorgendo molte nuove voci che raccontano storie molto diverse a un pubblico relativamente piccolo. È meno chiaro se queste voci sosterranno un più ampio credo sociale nel pluralismo, piuttosto che solo tribù in lotta tra loro.
Un altro confine importante oggi è quello tra marketing, social media e giornalismo. Ci sono situazioni ibride che talvolta si sovrappongono al giornalismo. Come si conciliano i doveri etici e deontologici del giornalista con la necessità di stare sul mercato?
Il giornalismo ha sempre avuto bisogno di comunicare con il pubblico, e i giornalisti – o i loro colleghi di redazione – devono abbracciare tutti i modi in cui possono comunicare, senza vergognarsi di promuovere il lavoro di cui sono orgogliosi. I social media sono un modo per farlo, le connessioni dirette via e-mail un altro, la grande scrittura sul proprio sito un altro modo ancora.
Cosa pensa del giornalismo partecipativo?
L’idea del “citizen journalism” è stata un prodotto dell’era dei blog, quando alcune persone hanno trovato il modo di esprimersi direttamente online, ma era ancora di nicchia. Ora tutti hanno la capacità di esprimersi in pubblico e il “giornalismo”, se vogliamo chiamarlo così, fa parte dell’essere persona nel 2024. Quindi non credo che esista una categoria specifica di citizen journalist. C’è una differenza tra dilettanti e professionisti, ma credo che spesso, quando i dilettanti diventano abbastanza bravi, trovino il modo di farsi pagare e diventare professionisti.
Che consiglio darebbe ai giovani che vogliono iniziare a fare i giornalisti oggi?
Cercate di fare scoop.