Carlo Nesti, 50 anni di carriera giornalistica
Mercoledì 27 novembre Carlo Nesti ha compiuto 50 anni di carriera giornalistica, avendo firmato, lo stesso giorno del 1974, il primo articolo per Calciofilm. Da quel giorno sono tante le storie che ha raccontato e di cui è stato testimone. L’abbiamo intervistato, parlando di come è cambiato il mestiere e dei momenti più belli e difficili.
Ha sempre voluto fare il giornalista? «Fin da bambino ho sognato di fare questo lavoro, mi ritengo molto fortunato perché so quanti non riescono a realizzare i propri sogni, mentre io ci sono riuscito. I miei genitori mi dicevano che già da piccolo mi immaginavano con microfono, penna e pallone; si trattava per me di unire queste tre cose in un mestiere, perché non potevo e non posso farne a meno».
Come ha iniziato? «Nel 1974, appena data la maturità, mi sono guardato intorno cercando appigli per iniziare a scrivere e una persona che per me è stata determinante è stato lo scrittore Giovanni Arpino, una guida fondamentale. Dopo, a Tuttosport, l’altro incontro chiave è stato quello con Pier Cesare Baretti, vicedirettore prima e direttore dopo, altro elemento guida della mia carriera e della mia vita; l’ho sempre considerato un fratello maggiore».
Come è nato il rapporto con Calciofilm? «Per Calciofilm è stato casuale l’aggancio, ho saputo che Riccardo Rossotto, che oggi è un avvocato, ma all’epoca era un giornalista sportivo e corrispondente da Torino per il Corriere dello Sport, scriveva per questo settimanale locale che si chiamava Calciofilm, che usciva in edizione granata e bianconera tutte le settimane; c’era meno tv di oggi, le foto avevano ancora un fascino eccezionale e questo giornale raccoglieva le migliori fotografie accompagnate da testi; lì ho iniziato con il direttore Giorgio Gandolfi e la prima intervista il 27 novembre 1974 l’ho fatta giocando in casa, perché nel mio condominio viveva il vice presidente onorario della Juventus Cerruti. Da lì è iniziato tutto».
Qual è stata l’intervista più importante? «L’intervista che mi ha consentito di entrare a Tuttosport è quella più importante. Avevo proposto a Gandolfi di intervistare Baretti di Tuttosport e in cuor mio sapevo che se le cose fossero andare bene, in qualche modo avrei chiesto di collaborare; per fortuna è scattato il feeling, mi ha preso in simpatia e mi ha detto di provare a mandare un’intervista. All’epoca collaboravo già con il Guerin Sportivo e ho telefonato a un allenatore che era stato esonerato dopo due anni di Juventus, Carlo Parola. Aveva voglia di sfogarsi, perché dopo l’esonero non aveva ancora parlato con nessuno. Anche lì il feeling mi ha dato un’opportunità, perché si fidava, mi aveva visto più volte al campo e sapeva che non avrei inventato nulla. Quell’intervista è stata pubblicata su una pagina intera che conservo ancora».
Le interviste più complesse della sua carriera quali sono state? «C’erano giocatori con cui era più difficile avere un rapporto, ma con il tempo le cose sono cambiate: fino a 18 anni ero tifoso della Juve, con il Torino come seconda squadra, perché papà era bianconero e mamma granata; mi sono messo in condizione di pareggiare i due sentimenti, sono diventato un sangue misto, perché ho trovato l’ambiente della Juve più austero e quello del Torino più accogliente: stiamo parlando di due squadre che allora lottavano per lo Scudetto, era una fortuna per me essere a Torino in quel momento in cui era la capitale del calcio: tra i giocatori devo dire che Causio e Benetti non erano facili, ma era così per tutti, però con il tempo con Causio il rapporto è diventato più caloroso».
Lo sport è ancora considerato un giornalismo di serie b? «Oggi tante testate parlano di sport e parlano di calcio, quello era più un problema dei miei tempi, considerare il giornalismo sportivo come informazione di serie b, tant’è che non eravamo in tanti a candidarci per questo mestiere; oggi credo sia differente. Ci sono stati grandissimi personaggi come Montanelli, Biagi, Arpino, Gianni Brera, che hanno portato il giornalismo sportivo a un livello intellettuale pari a tutto il restante giornalismo».
Ci racconta un aneddoto speciale? «Ho scritto il mio decimo e ultimo libro che è un libro autobiografico intitolato “La vita è rotonda”; lì c’è un aneddoto in ogni capitolo, le partite ma anche cosa è successo in quella giornata di gara. Dovendo scegliere un aneddoto, scelgo la Coppa del Mondo nel 1994 negli Stati Uniti, quando per Italia-Brasile ero destinato a essere il secondo di Pizzul; all’epoca la Rai affiancava due giornalisti, non come oggi un giornalista insieme ad un addetto ai lavori; a 40 minuti dall’inizio della partita la presidente della Camera di allora chiama Pizzul, perché aveva un messaggio da leggere da parte di Scalfaro. C’era ressa, avevo timore arrivasse in ritardo in postazione, ma lui giustamente preferì andare di persona e non mandare nessuno, però risalendo aveva dimenticato l’accredito in postazione e non l’hanno fatto accedere subito. Abbiamo dovuto mandare una persona a dimostrare che era il giornalista che doveva realizzare la cronaca per l’Italia, ma nel frattempo è iniziato il collegamento e ho realizzato un sogno, quello di fare la telecronaca per un minuto e l’introduzione della finale di Coppa del Mondo, poi è rientrato lui affannato, ma con mestiere ed esperienza si è subito messo in carreggiata».
Come è cambiato il mestiere in questi anni? «Io mi sento un giornalista e sono orgoglioso di esserlo, facente parte di una razza in estinzione, perché sono ancora un giornalista moderato, non schierato. In questi anni però mi sono trovato in imbarazzo con l’esplosione dei giornalisti tifosi. Capisco che per vivacizzare le trasmissioni ci siano anche loro, ma i giovani recepiscono in maniera errata questa cosa; ritengono che per fare il giornalista si debba essere tifosi, che è esattamente il contrario di quello che hanno detto a me quando ho iniziato, cioè spogliarsi del tifo. Mi trovo spaesato da tutto questo. Nelle tv commerciali vedo troppe persone che non sono giornalisti, ma sono tifosi e parlano di calcio; alcuni sono competenti, altri vanno lì in veste di ultrà e non mi piace molto».