Gli insegnamenti che arrivano dal “caso” Esposito
Tempi della giustizia irragionevoli e di molti innocenti si perde memoria, ma il problema non è l’informazione
Conosco Stefano Esposito da quando entrambi, come si dice, portavamo i calzoni corti. Nella nostra più che trentennale frequentazione ci è capitato di condividere battaglie comuni come di avere opinioni diverse e tuttavia ci ha sempre accomunati un grande rispetto per le reciproche idee al quale si è spesso accompagnata anche una certa dose di ironia.
Proprio per questa conoscenza profonda non ho mai dubitato della sua rettitudine morale e ho compreso molto bene come l’accusa che gli è stata mossa nei sette lunghissimi anni durante i quali si è protratta la sua vicenda giudiziaria, fosse per lui un peso enorme da portare. Lo ha fatto con lo spirito del combattente con il quale lo avevo conosciuto a sedici anni e tuttavia il sospetto di aver “venduto” la propria funzione pubblica è il peggiore che possa cadere sulla testa di un politico. Lo è ancor di più per chi appartiene a quella generazione che ha fatto della difesa della legalità una propria bandiera e che scese nelle piazze quando la mafia fece saltare in aria Falcone e Borsellino provando a ipotecare la nostra democrazia. Non so dove fossero molte delle persone che in questi anni, spesso a vanvera, hanno parlato del “caso” Esposito: io e lui, di certo, eravamo in quei giorni al ciclostile a organizzare quelle manifestazioni pur militando in organizzazioni politiche diverse.
Questi trascorsi comuni, anche per il ruolo che ricopro, mi hanno indotto in questi anni a evitare ogni commento pubblico sulla vicenda: il rispetto delle istituzioni si pratica e non si dichiara. Ora che il capitolo, il libro per meglio dire, è chiuso, voglio fare due sole considerazioni, lasciando da parte il merito della vicenda giudiziaria sul quale persone più competenti di me come Marco Imarisio hanno scritto parole molte precise.
La prima riguarda i tempi della giustizia: questa ennesima vicenda nella quale la vita di una persona è stata sconvolta da un’indagine giudiziaria, ci dimostra ancora una volta come il problema non sia quello di occultare le notizie o renderle più difficilmente raggiungibili per la stampa, come accaduto ad esempio con il “decreto Cartabia” che ha complicato il lavoro dei cronisti consegnando al tempo stesso al Capo della Procura il controllo sul flusso delle notizie. Un provvedimento che, come ho già avuto modo di scrivere, ha avuto un effetto tutt’altro che garantista. Il problema, il primo problema che dobbiamo risolvere se vogliamo avere una giustizia giusta, è invece quello di assicurare alle indagini tempi certi e ragionevoli e sette anni per liberarsi di un’accusa falsa non lo sono certo.
La seconda riguarda ancor più direttamente l’informazione. Stefano Esposito, personaggio pubblico, al termine del suo calvario, ha quantomeno avuto la possibilità di raccontare al mondo la conclusione della sua storia ottenendo un risalto pari a quello avuto dalla notizia dell’apertura dell’indagine. Nessuno gli restituirà il tempo e le opportunità perdute, ma ha avuto indietro la sua dignità. Lo stesso non accade però ad altre persone che finiscono per errore in un tunnel giudiziario per poi essere dimenticate. Uomini e donne i cui nomi non sono noti ma le cui vite non valgono meno di altre. Non ci sono soluzioni semplici o forse non ci sono soluzioni in assoluto, ma per i giornalisti, trattare la cronaca giudiziaria rispettando sempre la presunzione di innocenza, dando notizia fino all’ultimo passo dei procedimenti giudiziari dei quali ci si occupa – anche perché nelle memorie digitali non restino perenni marchi di infamia – è una norma di civiltà dalla quale nessuno dovrebbe mai astenersi.
Stefano Tallia, Presidente Ordine dei Giornalisti del Piemonte