13/08/2025

Da Sarajevo a Gaza: il dovere di sostenere chi non rinuncia a fare informazione

Attivo un conto corrente per il sindacato dei giornalisti palestinesi

Sono passati esattamente quattordici anni dalla prima volta in cui misi piede a Sarajevo. Ricordo nitidamente la prima colazione consumata con lentezza e in solitudine in un caffè sulle rive della Miljacka quando il sole non si era ancora alzato sulla città. Poi, la passeggiata lungo la via che conduce al mercato dove arrivai quando i venditori stavano ancora sistemando le loro merci sui banchi. Mi sono chiesto più volte cosa della storia e delle storie di quella città mi abbia rapito tanto da volermene occupare anche negli anni successivi. Forse, la lentezza della sua vita che induce alla riflessione, una città nella quale nessuno pare mai aver fretta: nelle interminabili partite a scacchi di fronte alla chiesa ortodossa, nei caffè della Baščaršija, nell’acqua che scorre placida sotto a ponti che portano il peso della storia.

Ma no, non è e non può essere solo questo. A chiamarmi ogni volta verso Sarajevo è invece la sua capacità di essere spiegazione del passato e premonizione del futuro. Più volte in questo trentennale del genocidio di Srebrenica abbiamo letto di quel conflitto, ma per capire davvero quello che successo allora in Bosnia e oggi in altre parti del mondo è necessario passare da Sarajevo, la città che per quattro lunghi anni è stata assediata. Un assedio feroce che non aveva alcun obiettivo militare: le mura da far crollare non erano infatti quelle della città ma quelle di un modello di convivenza nel quale non si era cattolici, musulmani o ortodossi, ma prima di tutto si era “cittadini di Sarajevo”. Un’idea insopportabile per i fanatici della spartizione etnica. È proprio qui che per la prima volta, in Europa dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, il male assoluto si è mostrato senza vergogna e con l’orgoglio di essere tale. Da una parte, i cecchini che sparavano su donne e uomini inermi come per gioco, dall’altra, la città che, prima che con le armi, resisteva con la sua vita. I bar che continuavano a riempirsi di persone, i teatri che proseguivano ad affollarsi di spettatori e addirittura un festival cinematografico nato in quel periodo e che quest’anno festeggia il suo trentunesimo anno di vita.

Sì, proprio di vita. Ma c’è un elemento che, più di altri, fornisce l’idea della resistenza di Sarajevo ed è il suo giornale, Oslobođenje. Un giornale che, nei giorni più duri dell’assedio, quando anche la carta era divenuta un bene introvabile, i redattori arrivarono a scrivere a mano affiggendolo poi nelle bacheche del centro della città, perché non si potesse dire che i macellai che sparavano dalle colline avevano fermato l’informazione. Un esempio di resistenza e un monito. È proprio l’impegno di quelle colleghe e colleghi a farci capire perché, anche in questi giorni, chi non conosce altro argomento della forza, colpisce l’informazione. Perché quando si spegne quella luce, quando tacciono le voci che la raccontano, ogni opposizione civile alla violenza diviene più difficile. Però, dalla redazione assediata di Oslobođenje fino all’eroico lavoro dei pochi giornalisti sopravvissuti a Gaza, resistere per testimoniare è necessario e possibile.

Sostenere questo impegno è un dovere di ogni democratico: chi vuole può farlo aderendo alla campagna “Alziamo la voce per Gaza” facendo arrivare il proprio contributo a:

IBAN: IT40N0103003250000005602513, intestato a Consiglio Nazionale Ordine dei Giornalisti, causale: “Alziamo la Voce per Gaza”

Stefano Tallia, Presidente Ordine dei Giornalisti del Piemonte

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