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ATTUALITA'

29/07/2024

Il carcere e quelle parole che non dovrebbero mai finire sui giornali

Quando la difesa del diritto di cronaca passa anche dalla scelta di non pubblicare un verbale

Invitato dal Garante regionale dei detenuti Bruno Mellano e dal dipartimento di studi giuridici dell’Università di Torino, sono stato alcune settimane fa all’interno del polo universitario del carcere di Saluzzo. Una realtà piuttosto lontana da quanto leggiamo in queste settimane a proposito dei penitenziari italiani all’interno dei quali il sovraffollamento sta rendendo intollerabili le condizioni di vita. Pur non conoscendo dettagliatamente la situazione di quel carcere, nel corso dell’incontro mi sono fatto l’idea di una struttura nella quale, pur nella inevitabile durezza della condizione detentiva, quella visione del carcere come luogo di recupero e di riscatto delle persone scritta nella nostra Costituzione, abbia un qualche senso. Con gli studenti-reclusi abbiamo quindi discusso e ragionato del delicato rapporto tra informazione e giustizia e del tema, per i detenuti centrale, del diritto all’oblio. Un confronto utile a conoscere il punto di vista di chi è spesso protagonista delle cronache, un esercizio che credo tutti i giornalisti dovrebbero fare di tanto in tanto. Fino a qualche ora fa, avrei dunque voluto dedicare quest’ultima puntata del Diario prima della pausa estiva a un richiamo generale sulle parole che utilizziamo per raccontare questa realtà, che tante, troppe volte, difettano della necessaria sensibilità. A questi temi nei prossimi mesi l’Ordine dei Giornalisti del Piemonte dedicherà alcuni corsi di formazione e tuttavia, proprio un episodio avvenuto nel fine settimana mi suggerisce una riflessione più ampia sul giornalismo e le sue regole.

Mi riferisco alla pubblicazione del colloquio avvenuto in un penitenziario tra un detenuto e i suoi famigliari, corredato in alcuni casi anche dalle immagini dell’incontro stesso. Non cito i nomi dei protagonisti e non voglio entrare nel merito delle frasi riportate – purtroppo – da quasi tutti gli organi di informazione, perché penso vi sia una questione che preceda tutto.

È corretto, utile alla conoscenza dei fatti, pubblicare un dialogo privato tra persone che si trovano in una condizione emotiva evidentemente alterata dalle circostanze? Aggiunge elementi di conoscenza indispensabili o rappresenta invece una intollerabile violazione della privacy ?

Intendiamoci, non è in questione il diritto degli inquirenti a intercettare dialoghi dai quali pensano di poter ricavare elementi di prova, né un giudizio sulla gravità del reato contestato. Qui si tratta invece di utilizzare quella sensibilità della quale ogni giornalista dovrebbe essere dotato, vala a dire la capacità di essere mediatore tra la notizia e il pubblico e non semplice riproduttore delle carte delle quali viene in possesso. 

Per altro, sono proprio queste disinvolte scelte editoriali a fornire alibi chi non aspetta altro per porre limiti al diritto di cronaca, quello che riguarda invece fatti di indubbio interesse pubblico. Avvenimenti tra i quali non rientra però il colloquio privato tra un detenuto e un suo genitore. In chiusura non posso che fare mie le parole di Enrico Mentana, uno dei pochi direttori ad aver scelto di non pubblicare quel dialogo: «Vorrei capire come le frasi di un genitore in visita al figlio detenuto in attesa di giudizio nel parlatorio di un carcere vengano registrate e poi fatte uscire, pur essendo prive di qualsiasi contenuto utile alle indagini e per di più pronunciate da un cittadino non indagato. Oppure vogliamo aggiungere ai codici la norma per cui il padre dell’autore di un delitto efferato perde da subito a sua volta ogni diritto, come punizione per avere allevato un mostro?»      

Stefano Tallia, Presidente Ordine dei Giornalisti del Piemonte   

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