Quando i limiti al diritto di cronaca non garantiscono l’indagato
Le contraddizioni della norma che impedisce di pubblicare le ordinanze di custodia cautelare
Pur travagliato da altre vicende che hanno costretto alle dimissioni un suo ministro, il Governo non ha perso tempo alla ripresa dell’attività politica per dar corso a quella stretta sul diritto di cronaca annunciata da tempo e in parte già praticata. Dunque, secondo il provvedimento approvato dal Consiglio dei ministri, non sarà più possibile pubblicare le ordinanze di custodia cautelare fino a quando non siano terminate le indagini preliminari o sia stata celebrata l’udienza preliminare. Una norma giustificata dall’esigenza di tutelare il diritto alla presunzione di innocenza e che però, oltre agli evidenti limiti che pone alla possibilità dell’opinione pubblica di conoscere fatti rilevanti, potrebbe avere risvolti del tutto contrari all’intento del legislatore.
Come ho già avuto modo di argomentare in un precedente intervento, ritengo infatti che la trasparenza sulle ragioni e sugli atti che giustificano la privazione della libertà, sia anzitutto un elemento a garanzia dell’indagato. Non vorrei eccedere nella polemica, ma ricordo che sono proprio i regimi antidemocratici ad incarcerare le persone nell’opacità. Naturalmente non è questo l’intento di chi ha scritto la norma, ma l’esito potrebbe non essere dissimile. Semmai, sul piano del garantismo, credo vi siano altri elementi sui quali sarebbe opportuno riflettere.
Penso, ad esempio, che molto più ragionevole sarebbe concedere alla difesa un tempo congruo per leggere le carte prima che queste possano essere rese pubbliche. Uno dei limiti della cronaca giudiziaria è certamente rappresentato dal fatto che le notizie, quantomeno nella fase iniziale, hanno spesso e inevitabilmente un tono accusatorio. Questo non per smanie giustizialiste da parte dei colleghi che se ne occupano, ma per l’impossibilità della difesa di approntare in tempo utile un qualunque ragionamento. Capita spesso che un indagato possa scoprire di essere tale nello stesso giorno viene raggiunto dalla telefonata di un giornalista che, con scrupolo, gli chiede come intenda discolparsi o se comunque abbia qualcosa da dichiarare. Il punto è che sul tavolo di quella persona e del suo avvocato si sono appena state depositate centinaia e centinaia di pagine di atti che richiedono quantomeno il tempo della lettura. La stessa domanda, posta all’indagato con una settimana di distanza, produrrebbe effetti diversi e di certo una narrazione più completa dell’intera vicenda. Una norma di questo genere non impedirebbe quindi all’opinione pubblica di conoscere i fatti in maniera tempestiva e anzi la metterebbe nella condizione di apprenderli in maniera più equanime.
Che l’attuale normativa ponga invece importanti limiti al diritto di cronaca lo hanno confermato durante l’estate e dichiarazioni del procuratore capo di Temini Imerese Ambrogio Cartosio che dopo alcuni giorni di silenzio con la stampa a proposito del naufragio del Bayesan si è sfogato con i cronisti: «In questi giorni mi sono trincerato nel silenzio, non ho risposto alle domande rivolte ma l’ho fatto semplicemente perché è giusto che si sappia che in Italia non è consentito fare diversamente, perché il decreto 106 del 2006 vieta al procuratore della Repubblica di fare dichiarazioni se non in occasioni particolari. Si possono utilizzare solo il comunicato stampa e la conferenza stampa. La legge crea ostacoli notevoli all’attività della libera informazione, ma credo che tutti i cittadini, anche i magistrati, sono tenuti a rispettare le leggi anche quando non piacciono».
Parole chiare che si uniscono a quelle di molti altri addetti ai lavori e che testimoniano l’urgenza, più volte evidenziata anche in queste righe, di arrivare a una legislazione condivisa e che sia rispettosa di tutti i diritti.
Stefano Tallia, Presidente Ordine dei Giornalisti del Piemonte