Donne e informazione: «Tanta strada fatta, ma ancora tanta da fare»
Vera Schiavazzi moriva improvvisamente il 22 ottobre del 2015 a soli 55 anni e giovedì 26 ottobre è stata ricordata al Circolo dei Lettori di Torino, in una serata nell’ambito del Premio Morrione, per ripercorrere assieme a colleghe e allieve di diverse generazioni il suo insegnamento, la strada percorsa da allora e i temi attualmente in discussione. Fra questi le nuove modalità d’accesso alla professione giornalistica, l’uso del linguaggio e la più ampia riflessione sul rapporto fra donne e informazione.
Per molti anni cronista e analista politica di Repubblica e poi del Corriere della Sera, spin doctor del sindaco di Torino Sergio Chiamparino, sindacalista, fondatrice e direttrice del Master di Giornalismo Giorgio Bocca dell’Università di Torino, maestra di generazioni di giovani giornalisti, tutta la sua carriera professionale è stata consacrata all’impegno per la parità di diritti e la valorizzazione del ruolo della donna nel mondo dell’informazione, lottando contro stereotipi e pregiudizi e anticipando in modo pionieristico battaglie che oggi sono fortunatamente diventate patrimonio comune.
A introdurre la serata è Simonetta Rho, giornalista, con un ricordo personale: «Vera ci ha lasciati otto anni fa in modo repentino e inaspettato. Ci ha lasciato molto a livello professionale. È stata una sempre uno stimolo, era due o tre passi avanti, aveva una grande voglia di conoscere il mondo e trasmetterlo sui giornali. La sua carriera era iniziata alla Gazzetta del Popolo in una fase di rinascita, poi Messaggero, Agi, Repubblica e tanto altro. Ha lasciato per entrare nel dietro le quinte della politica lavorando con Chiamparino da sindaco, per poi tornare da cronista al Corriere con lo spirito di voler ancora dare buchi ai colleghi, come a iniziò carriera. Nel frattempo ha fondato il Master, perché credeva nella formazione e soprattutto nella formazione democratica dei giornalisti. In particolare per i giovani. La seconda eredità che ci ha lasciato è un’idea di giornalismo a tutto tondo. La sua curiosità andava su tutto, ma si sporcava anche le mani. Riusciva a dare un tocco anche nelle cose del quotidiano».
Nel corso della serata a parlare di Vera, donne e informazione si sono poi alternate quattro generazioni diverse, per analizzare come è cambiato il mestiere e la percezione nel tempo. La più giovane è Federica Frola, giornalista, Sky Sport, ex allieva del Master: «Oggi l’accesso alla professione è forse un po’ più complicato di un tempo, ci vogliono strategie diverse e un livello di pazienza diverso. Adesso inoltre oltre alla fatica di entrare ci vogliono anche strategie di mantenimento dei contratti. Quello che non cambia però è l’appoggio dei colleghi e delle colleghe. A Sky sono fortunata, c’è una vicedirettrice vicaria con cui mi interfaccio che è una maestra ma sicuramente in generale c’è ancora un po’ di lavoro sulla percezione. Quello che ho notato in particolare con l’esperienza non solo mia ma di altre giovani colleghe è talvolta la paura di sbagliare e la difficoltà di raggiungere credibilità, soprattutto in un contesto sportivo come il mio dove c’è forse più scetticismo sulla competenza. Quello che però sto notando è un cambiamento nei miei coetanei, c’è un rispetto maggiore e non c’è differenza tra generi e altre tipologie di ismi, c’è una coscienza maggiore del contesto sociale in cui viviamo».
Letizia Tortello, giornalista agli esteri de La Stampa pone invece una questione fondamentale sul doppio ruolo di donna, madre e professionista, in un contesto – come il suo – altrettanto complesso per chi per esempio parte come inviata in zone di guerra: «Io appartengo a una generazione di mezzo, sono entrato a La Stampa dopo anni di collaborazione con un giornale più piccolo, ho iniziato presto, a 19 anni, poi mi sono persa tra altre cose universitarie e idee di dottorato, poi a 26 anni sono stata agganciata da uno stage a La Stampa e da lì non ho più mollato. Era un mondo fatto di grandi maestri, con grandi giornalisti verso i quali ti sentiva piccola, ma fortunata c’era l’opportunità di buttarsi nella mischia con loro. Ora il giornale è cambiato, ci confrontiamo con colleghi più giovani, maschi e femmine. Una ricerca di Oxford a livello mondo dice che il 22% dei top editor su 240 giornali sono donne. Il 40% donne. Quindi la metà della metà. In America però lo scorso anno le assunzioni sono state in parità. Si stanno facendo passi avanti. Ho assistito a tante epoche, quando sono arrivata ho cercato le donne in redazione e ho iniziato a catalogarle: figli, marito, ruoli».
«Oggi – prosegue Tortello – il mondo è cambiato e abbiamo sgrossato le battute sulle donne, la nostra redazione è sensibile allo sguardo femminile, agli Esteri abbiamo fatto battaglie per le donne iraniane e ucraine. C’è però ancora un tetto di cristallo ed è nel rapporto con il potere. Con lo scoppio della guerra c’è stato un cambio radicale nelle nostre carriere. Il giornale non aveva avuto più bisogno di inviati a lungo e ha dovuto inventare una nuova generazione di inviati di guerra. Siamo state tutte donne inviate in questi anni, con grande coraggio; anche dall’estero ho avuto modo di vedere tante donne. Mi sono chiesta come mai. Forse per il bisogno di dover conquistare sul campo. Forse abbiamo più coraggio. Meno paura di buttarci. O più necessità. Però mi sono accorta che a volte ci sono due identità in conflitto: quella della professionista che va in guerra e quella della mamma. Per gli uomini non c’è questo pensiero. Credo si debba continuare a difendere i diritti delle donne giornaliste, soprattutto quando hanno difficoltà a conciliare la vita personale con il lavoro, per paura venga tolto ciò che è stato conquistato».
Una delle donne a cui guardava Tortello a La Stampa era Stefanella Campana (Giulia Giornaliste), che racconta la sua esperienza in tempi diversi al giornale: «Avevo deciso di fare la giornalista perché ero curiosa del mondo, avevo fatto la ragazza alla pari a Parigi e Londra, non conoscevo nessuno, ma pensavo che potesse cambiare le cose fare la giornalista. Inizialmente mi hanno scoraggiata, ma volevo provarci. Ho iniziato con Avvenire nella piccola redazione distaccata di Torino. Mi sono occupata di sindacato e politica. Con colleghi molto più esperti ho imparato molto e ho iniziato a farmi notare. Ho fatto qualche sostituzione estiva e tutto è cominciato. Non è facile trovare il giusto equilibrio tra vita professionale e personale, ha ragione Letizia. Ancora siamo penalizzate spesso per questo motivo. C’è ancora questo problema e non dovrebbe essere così, però rispetto a un tempo direi che siamo a buon punto oggi, anche grazie alle nostre battaglie, che hanno portato a buoni risultati. Non sono tante le giornaliste nei luoghi di potere, ma ci sono, sono stati fatti passi avanti. Quello che penso è che non si debba mai mollare, anche nell’uso del linguaggio, perché il rischio di tornare indietro c’è sempre. Ci sono cose che non sono irrilevanti, poiché quello che non nomini non esiste. Farsi chiamare vuol dire anche darsi valore. Abbiamo fatto molto, ma non ancora abbastanza; e questo non è un grido di battaglia contro gli uomini, ma un voler essere riconosciute».
A chiudere la serata è il racconto di Giuseppina Paterniti, giornalista Rai, già direttrice Tg3, che porta anche la sua esperienza di donna e giornalista in ruoli apicali: «Ho iniziato collaborando nell’economico e ho avuto dei grandi maestri che mi hanno insegnato ad avere coraggio nel racconto del mondo stando dalla parte degli ultimi. Ci vuole coraggio anche nel raccontare con chiarezza ed ho imparato a dire le cose nettamente, come sono, questo mi ha sempre aiutata. Mi sono sempre lanciata anche in campi nuovi senza paura e con passione, perché per fare questo lavoro ci va passione. Nel corso del tempo strada se n’è fatta, quando sono arrivata non c’erano tante donne, ma piano piano sono arrivate e hanno assunto anche ruolo di responsabilità. Credo che la nostra professione sia anche lo specchio della società. Si tratta del rapporto con il potere politico, ma anche economico, delle imprese: il sistema di potere si relaziona più facilmente al mondo maschile, ma non per questo non c’è spazio. Io la differenza l’ho sentita in pochissimi casi. Forse per il mio carattere, per la mia capacità di dire tanti no. Per scardinare i sistemi di potere bisogna fare emergere quello che si è, non piazzarsi nel cliché. Se hai dignità di te stesso si ottengono risultati, lavorando insieme e facendosi forza. Questo credo sia il segreto».