Milena Boccadoro sulla libertà di stampa: «Il bisogno di un’informazione libera non è cambiato»
Riportiamo qui di seguito l’intervento sulla libertà di stampa del 25 giugno di Milena Boccadoro in occasione dell’evento de La Via Maestra
Buongiorno a tutte e tutti,
In vista di questo incontro mi sono chiesta come affrontare un argomento cosi importante la libertà di stampa sancita dalla nostra Costituzione e oggi minacciata in tanti modi.
Ho pensato di partire da me per cercare di capire se in tanti anni di professione, ho lavorato 30anni alla Rai, io mi sia sentita libera.
Al giornalismo arrivai per un fortunato caso, un concorso indetto dalla Rai. Non avevo sognato fin da bambina di fare questo mestiere ma ho da subito pensato quanto fosse grande la responsabilità che comportava. Perché nel lavoro di necessaria sintesi avrei sempre dovuto escludere, tacere qualcosa. E a distanza di anni mi ritrovo nella definizione che ne ha recentemente dato il direttore del Post Luca Sofri: «Il giornalismo è di solito il racconto una persona che per ben fatto che sia, sono molte più le cose che trascura, tace esclude di quelle che dice, mostra spiega. Il buon giornalismo non è verità ma correttezza, accuratezza buona fede».
Principi a cui ho cercato di attenermi anche facendo in conti con l’autocensura che è più subdola della censura. In qualche raro caso mi è stato chiesto apertamente di cambiare una frase, una parola di non dire una cosa, ma molto più spesso mi è stato fatto capire che sarebbe stato meglio di no. L’autocensura ti porta a non affrontare argomenti che vengono ritenuti scomodi, a rinunciare a difendere idee e proposte sgradite a chi governa le redazioni e può decidere della tua carriera, cosa farti fare.
Correttezza e accuratezza hanno bisogno di tempo mentre l’informazione, spinta dai cambiamenti tecnologici, corre sempre più veloce. Il tempo della verifica delle fonti, dell’approfondimento si è ridotto drasticamente.
Quando sono entrata in Rai nel 1986 la testata giornalistica regionale, aveva due giornali radio, e un telegiornale al giorno. Oggi dalle 7 e 30 alle 22 il palinsesto prevede tre trasmissioni di 20 minuti, tre giornali radio, un sito web in constante aggiornamento. A cui si aggiungono i servizi per le testate nazionali che sono proliferate in eguale misura. E con lo stesso numero di colleghi. Ma tutto il mondo dell’informazione sta affrontando profondi cambiamenti spinti dalla digitalizzazione, dalla diffusione delle piattaforme on line, dai social media. Solo per citare un dato secondo il Digital New Report del Rueter Institute quest’ultima è la fonte usata per informarsi dal 39 per cento degli italiani. Percentuale ancora più alta tra gli under 30.
Ma per tornare alla mia esperienza quando sono entrata in Rai nella redazione di Genova ero l’unica giornalista. Negli anni ho visto crescere la presenza delle colleghe, oggi le giornaliste professioniste sono tantissime. Ma a scegliere cosa è una notizia sono ancora prevalentemente uomini.
Sono maschi i direttori dei trenta quotidiani più letti in Italia. I sette telegiornali delle maggiori reti televisive sono diretti da maschi. I cinque giornali online più seguiti hanno cinque direttori maschi
Le uniche 3 donne direttrici responsabili sono Agnese Pini, che dirige i quotidiani editi dal gruppo monrif (La Nazione, Il Giorno, Il Resto del Carlino), Stefania Aloia, che dirige Il Secolo XIX e Nunzia Vallini, direttrice responsabile del Giornale di Brescia.
E non va meglio nel resto del mondo Secondo una ricerca del Reuters Institute, che ha preso in considerazione un campione di 240 testate, in 12 mercati diversi distribuiti nei cinque continenti, solo 2 giornali su 10 sono diretti da donne.
Non voglio dire che basta mettere una donna al comando per avere uno sguardo più ampio sul mondo, che tenga conto anche del punto di vista delle donne, dei loro bisogni, dei loro desideri.
Appena eletta presidente Giorgia Meloni ha chiesto con una lettera ufficiale di essere chiamata al maschile, il presidente. Le ho scritto una letterina chiedendole se anche la sarta, l’operaia, la maestra, la postina avrebbero dovuto usare il maschile inclusivo per essere riconosciute nel loro ruolo. E perché mai ce l’avesse tanto con l’articolo femminile. Ovviamente non mi ha risposto. Ma se ci fate caso la sua richiesta non ha avuto gran seguito. E, a parte alcune testate più vicine al suo sentire, sulla gran parte dei media viene usato l’articolo femminile, come prevede la grammatica italiana. Un segnale positivo: nonostante le resistenze, le battute d’arresto, l’uso del linguaggio inclusivo si sta diffondendo.
Credo per finire che oggi chi lavora nell’informazione debba affrontare sfide ancora più complesse di quelle che ho affrontato io. Perché in pochi anni è cambiato il modo di fare informazione, ma non il bisogno di una informazione libera.