Quella Libia così difficile da raccontare, con Nancy Porsia e Gian Mario Gillio
Quello che ci ostiniamo a chiamare “quarto potere” forse è il più preso di mira da provvedimenti bavaglio, catene di comando immodificabili a cui rispondere. Spesso, in una simile condizione chi scrive o realizza un servizio, lo fa sapendo bene che sarà retribuito solo se il suo lavoro corrisponderà alle esigenze di chi lo acquista, e spesso dopo mesi dalla realizzazione. La libertà di molti professionisti è dunque condizionabile.
C’è chi è costretto all’”autocensura”, chi si limita a proporre verità digeribili e chi, non rassegnandosi a volte non trova spazio. La Libia raccontata da Porsia è senza censure, infingimenti, ma pura verità sostanziale dei fatti, narrata da chi l’ha vissuta. Ne ha parlato in un corso promosso da Ordine dei Giornalisti del Piemonte nell’ambito del Festival delle migrazioni, organizzato in collaborazione con Settimanale Riforma – Eco delle Valli Valdesi, insieme a Gian Mario Gillio.
Il Festival, alla quinta edizione, quest’anno ha come tema “Che clima c’è?” per una cinque giorni di arte, incontri, letteratura e teatro, diffuso tra San Pietro in Vincoli, Scuola Holden, Valdocco, Ufficio Pastorale Migranti, Polo del ‘900, Giardino Pellegrino e Fondazione Sandretto Re Rebaudengo con più di quaranta ospiti e oltre trenta eventi.
Che clima c’è è il fil rouge, con “clima” inteso con un’accezione doppia, in rapporto all’ambiente e alla politica: due argomenti particolarmente urgenti, considerata da un lato la drammatica situazione legata all’accoglienza e dall’altro la rapidità dei cambiamenti atmosferici in tutto il mondo, che va inevitabilmente a incidere su nuovi flussi migratori.
A parlarci dell’incontro sulla Libia è Nancy Porsia, giornalista indipendente esperta di Medio Oriente, Nord Africa e Corno d’Africa. I suoi lavori da Siria, Libano, Iraq, Libia, Tunisia, Eritrea e Etiopia sono stati pubblicati da emittenti e giornali nazionali e internazionali. Da maggio 2023 è in libreria con Mal di Libia, Bompiani, un memoir mescolato con la sua biografia che porta a conoscere una terra ostile, alla scoperta di un popolo contraddittorio ma spesso incompreso, lontano da quello di cui danno notizia i media mainstream, e insieme offre uno sguardo onesto sulla sua vita: cosa vuol dire fare la frontline quando si è donna e madre? Cosa vuol dire avere un legame indissolubile con una terra pericolosa per la propria sicurezza? E soprattutto, qual è il costo di una voce libera e indipendente?
«Ho fatto – ci dice – un percorso giornalistico nelle aree di crisi, fino all’approdo in Libia, dove ho dovuto farmi spazio anche dal punto di vista di una rilettura del lessico per una sorta di decolonizzazione dell’informazione. L’obiettivo del libro era portare il baricentro dell’attenzione sulla Libia, perché si parla sempre di Libia e mai di libici, come se fosse un corridoio vuoto di transito per i migranti; la rivoluzione libica è solo una piccola parte del racconto, non il racconto di un popolo. Io invece mi sono trasferita lì convinta che i libici fossero una storia da raccontare, compresi i giovani e le loro contraddizioni, il cambiamento di una generazione e di un momento storico, raccontandone non solo le breaking news, ma il processo di cambiamento, il prima e il dopo, senza retorica».
Nancy Porsia arriva per la prima volta a Tripoli il 4 novembre 2011, due settimane dopo la morte di Muammar Gheddafi, con la netta sensazione di aver mancato un appuntamento con la Storia. Per un anno viaggia tra Nord Africa, Europa e Medio Oriente alla ricerca di storie da raccontare, ma poi è a Tripoli che ritorna e decide di stabilirsi, diventando l’unica giornalista italiana di base in Libia a scrivere di un paese che, giorno dopo giorno, diventerà anche il suo. Da lì racconta i grandi intrecci della politica, tra colpi di stato e interferenze dei servizi, gli sviluppi della guerra civile, le dinamiche complesse tra rivoluzionari e nostalgici gheddafiani, e poi la tragedia epocale delle migrazioni: dalle strade di Tripoli alle coste di Sabratha, per anni fa la spola tra le case dei trafficanti, le carceri stracolme di migranti catturati nel loro transito verso l’Europa e le spiagge grondanti cadaveri. Porsia fa politica extraparlamentare fin da giovanissima, con «la ferma convinzione di produrre cambiamento culturale e sociale, con una certa idea di giustizia sociale, ma sono sempre stata interessata anche dall’informazione e la dimensione della guerra mi ha sempre attratta, perché la reputo così complessa da volerla capire, come se fosse la dimensione madre di tutte le ingiustizie».
«Per fare informazione – continua – ho sempre preferito il giornalismo lento; essere lì, insomma, quando capita qualcosa e poi anche il giorno dopo, per capire le conseguenze di ciò che hai scritto. Con la Libia credo di aver investito su una cosa in cui nessuno credeva e il tempo mi ha dato ragione; credo di avere avuto fiuto giornalistico, ma l’ho fatto soprattutto perché mi dava soddisfazione raccontare cose che altrimenti non sarebbero state mai raccontate. Per farlo non dovevo nemmeno sgomitare, ma raccogliere materiale che sarebbe andato perso altrimenti. Essendo un paese scoperto ed essendo così centrale, sapevo che prima o poi avrebbe pagato e ho creduto di poter avere un’occasione facendo considerazioni di mercato e di storia politica».
L’ultimo passaggio della nostra chiacchierata con Nancy Porsia verte sull’essere freelance oggi: «Oggi sono una giornalista freelance particolarmente fortunata, perché non è facile vivere di giornalismo da freelance, quasi tutti fanno altro, come formazione, per esempio; non è una vita economicamente facile, ma sicuramente per farlo bisogna avere coraggio di osare e credere in una storia, nel proprio fiuto giornalistico».
Eugenio Giannetta