Ruben Razzante: «Più integrazione tra piattaforme»
Leggere l’evoluzione del sistema mediatico attraverso le lenti delle aziende editoriali, delle piattaforme web e social, delle Authority, degli studiosi, dei giornalisti, dei comunicatori e delle nuove figure professionali impegnate nel settore è quanto Ruben Razzante, studioso e docente di Diritto dell’informazione, ha cercato di fare con il suo nuovo saggio, “I (social) media che vorrei. Innovazione tecnologica, igiene digitale, tutela dei diritti”, appena pubblicato da FrancoAngeli.
Il libro è una raccolta di saggi che vuole essere un utile contributo al dibattito pubblico su temi quanto mai decisivi per il progresso della cultura digitale. A ciascuno dei coautori che hanno contribuito è stato infatti chiesto di raccontare esperienze e riflessioni attinenti al suo ambito di impegno professionale, aziendale e istituzionale, per formulare auspici e proposte, al fine di poter mettere a disposizione dei lettori una rappresentazione fedele di quanto sta accadendo nel mondo dei media e una proiezione verso quelli che potranno ragionevolmente essere gli scenari futuri. Ne abbiamo parlato con Razzante, discutendo di diritti, nuove professionalità e democrazia digitale.
Da docente di Diritto dell’informazione, come mai in Italia siamo ancora solo al 41° posto nella classifica sulla libertà di stampa?
Trovo che si debbano analizzare attentamente i parametri che servono a delineare questa graduatoria. Queste classifiche fotografano una tendenza, ma scontano talvolta l’approssimazione dei parametri. Credo in ogni caso che il pluralismo vada valutato in termini qualitativi e non solo quantitativi, perché l’ecosistema mediale è sempre più complesso. La libertà di stampa è costantemente minacciata, in altri stati anche più che nel nostro. Qui abbiamo il nodo delle querele temerarie: per silenziare la libera stampa si ricorre a minacce velate, con anche un rovescio della medaglia e inchieste pilotate per danneggiare avversari politici e giornalisti che si prestano, più o meno consapevolmente. È fondamentale però preservare sempre la libertà e vagliare l’attendibilità delle notizie da divulgare al grande pubblico. Questo è un tema su cui lavorare.
I social media che ruolo giocano in questo scenario?
L’articolo 9 del testo unico dei doveri giornalista qualifica anche i social come fonti a tutti gli effetti che arricchiscono il serbatoio per i giornalisti, ma i social sono o non sono responsabili dei contenuti che veicolano o hanno solo un ruolo di trasmettitori? Contribuiscono con loro amplificazione a commettere reati come per esempio le violazioni della privacy? Questo è il nodo da sciogliere, quindi un nodo di natura giuridica. In questo senso, con il Digital Service Act si stanno ampliano le responsabilità giuridiche anche in tema di rimozione di contenuti dannosi, dopodiché gli algoritmi non devono essere così opachi da rischiare di produrre nuove censure.
Quali sono le buone pratiche per contribuire a costruire una democrazia digitale inclusiva, rispettosa dei valori della persona e imperniata su un corretto e maturo rapporto tra uomini e tecnologie?
Due sono – a mio avviso – gli strumenti essenziali: il primo è l’auto-tutela, quindi la disciplina nel dare maggiore valore ai propri dati, che hanno un valore economico per chi li maneggia, ma hanno anche un valore per contribuire alla nostra identità digitale per condividere con meno leggerezza. Il secondo punto è introdurre nelle scuole dell’obbligo la cultura digitale dell’uso responsabile dei social, con potenzialità e rischi e proposte di corsi anche per le famiglie, i genitori, i docenti, ovvero tutti coloro che sono coinvolti nella produzione di contenuti; un po’ come la vecchia educazione civica.
Altro tema dei social che interessa il giornalismo sono le nuove figure professionali.
In questo senso è necessario ci sia sempre maggiore integrazione tra le piattaforme. Già nel 2014 la Fieg firmò un accordo con Google per finanziare una serie di progetti formativi nelle redazioni e far crescere la cultura digitale. Oggi questi corsi andrebbero proposti sempre di più anche dall’Ordine dei Giornalisti, perché io sono un sostenitore dell’intelligenza artificiale in ambito giornalistico e credo che possa essere un alleato del buon giornalismo. Serve però una sinergia virtuosa tra editori, piattaforme e sponsor interessati a finanziare iniziative formative. Inoltre bisogna considerare che anche i social media manager che lavorano nel giornalismo devono necessariamente avere competenze giornalistiche, capacità di selezionare i contenuti, renderli fruibili e contribuire alla diffusione della buona informazione. L’integrazione tra professionalità credo sia anche un po’ la direzione verso cui sta andando l’Ordine, in termini di accesso alla professione, ma un vincolo deve essere sempre preservato ed è il rispetto fondamentale della deontologia.
Lei è esperto di monitoraggio per il contrasto della diffusione di fake news. Cosa possiamo fare come giornalisti? Basti pensare alle immagini prodotte dalle intelligenze artificiali, ma non solo…
Il rischio concreto che questi strumenti, come tutti quelli potenti della tecnologia, possano ritorcersi contro è concreto, perciò non bastano le leggi ma ci vuole anche educazione digitale ed auto-tutela, in modo che gli strumenti possano essere messi al servizio dell’uomo. Si deve vigilare sulla disinformazione e sta anche ai colossi del web impegnarsi per valorizzare l’informazione di qualità per renderla sempre più accessibile.
La digitalizzazione è stata prorompente negli ultimi anni e il prossimo passo sembra essere quello delle intelligenze artificiali. Che impatto avranno sul giornalismo?
Alcune redazioni già usano alcuni processi di automazione, per cui credo si debba discutere di riorganizzazione. Non vuol dire sostituire i giornalisti con i robot, ma trovare, con i relativi vincoli etici, l’equilibrio per far coesistere l’innovazione al servizio del lavoro giornalistico.
Eugenio Giannetta