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ATTUALITA'

08/06/2023

Una lettera dal carcere per riflettere sulla narrazione dei detenuti

In questi giorni a Palazzo civico, nel corso di una seduta congiunta delle commissioni consiliari V Cultura e Legalità, è stata presentata una lettera contenente le riflessioni scritte di cinque giovani adulti detenuti nella Casa Circondariale Lorusso e Cutugno (maggiorenni, ma di età inferiore ai venticinque anni). La riportiamo qui di seguito, per riflettere su come gli organi di informazione non mostrino una visione sempre corretta del fenomeno della devianza giovanile, proponendo ai lettori, non del tutto a ragione, un tipo di rappresentazione mediatica che contribuisce a produrre allarme sociale e percezione diffusa di insicurezza.

Il progetto si è sviluppato in numerose azioni di confronto e dibattito: una vera e propria sperimentazione sulla tutela dei diritti dei giovani adulti contemplata nella recente ricerca “Giovani Dentro e Fuori” (indagine condotta dall’Ufficio della Garante in collaborazione con il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino, che ha fotografato la condizione della componente più giovane della popolazione carceraria del Lorusso e Cutugno).

In “Lettere dal carcere”, in particolare, significativo si è rivelato il percorso di lettura e commento di alcuni articoli di giornale che, all’indomani dell’applicazione delle misure cautelari per i fatti di via Roma dell’ottobre 2020, tracciavano un preciso profilo criminale di alcuni dei loro autori, associando quegli episodi al fenomeno delle cosiddette “baby gang” modello banlieue parigine.

Qui è possibile leggere la lettera.

A commento di questa lettera, abbiamo intervistato Monica Cristina Gallo, Garante dei diritti delle persone private della libertà, i cui compiti istituzionali sono quelli di promuovere l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali delle persone private della libertà personale oppure limitate nella libertà di movimento, residenti o dimoranti nel territorio del Comune, ma anche quelli di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema dei diritti umani delle persone private della libertà personale: «Questo progetto –  ha spiegato Monica Cristina Gallo –  ha spinto i ragazzi  a prendere la parola e a scrivere una risposta a un certo tipo di narrazione, evidenziando gli aspetti problematici che toccano da vicino chi, come loro, è un giovane italiano di seconda generazione, abitante delle periferie torinesi».

«Andrebbe messa in campo – dice Gallo – una sensibilità e un’attenzione diversa verso questi giovani, perché un certo tipo di narrazione rischia di essere un ulteriore stimolo negativo. I giornali talvolta riconoscono e danno consistenza a qualcosa che in realtà non esiste e questi giovani – che in fondo cercano un riconoscimento – così ottengono proprio ciò che vogliono, ma non nel modo giusto. In questo modo si rischia di restituire un messaggio errato e in qualche maniera incentivare comportamenti negativi, come accadeva per i sassi dal cavalcavia per esempio».

«Credo – continua Gallo – che la fretta porti il giornalista a volte a far perdere di vista che c’è sempre una storia prima – che non traspare quasi mai – e una storia dopo. Nel nostro caso per esempio il ragazzo che ha vissuto quelle pagine sui giornali ha terminato gli studi, ha iniziato un percorso universitario e sta andando avanti. L’idea è quella di restituire dignità come valore aggiunto per i ragazzi, le ragazze e le loro storie. Credo che raramente ci sia la possibilità di raccontare storie positive e su questo si dovrebbe lavorare».

«Tutto è nato – conclude Gallo – quando abbiamo iniziato a osservare un aumento di giovani detenuti nel carcere di adulti tra i 21 e i 24 anni, è stata un’esplosione dopo il Covid. Quindi ci siamo posti il problema di garantire interessi anche ai più giovani, in strutture pensate perlopiù per meno giovani. Abbiamo fatto 120 interviste e riscontrato che spesso i ragazzi si sentono persi. Non c’è un disegno pensato per loro. Abbiamo riscontrato in primis una difficoltà ad agganciarli dal punto di vista del linguaggio e lì è nata l’idea di ospitare educatori che parlassero il loro stesso linguaggio alla pari, così abbiamo capito che questi giovani non sono solo come vengono rappresentati ma hanno molto altro da dire. Hanno un’esigenza di non essere narrati così, altrimenti la loro rabbia cresce. Questa sperimentazione, anche se piccola, credo abbia segnato una strada da percorrere per smontare un mito e sperimentare un modo di raccontare diverso».

Eugenio Giannetta

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