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ATTUALITA'

11/05/2023

Il cuore di Maradona nel trionfo del Napoli in campionato

Caro Diego,
alla fine è successo: il Napoli, il tuo Napoli, ha vinto il suo terzo scudetto, trentatré anni dopo l’ultimo, con la tua, seconda indelebile firma, e nel terzo anno dal tuo passo d’addio, in quel 25 novembre 2020 di freddo nel cuore, in quel naufragare nella nostalgia, in quell’incredulità senza conforto: te ne andavi in solitudine, tu che ancora oggi vieni celebrato nel mondo. Forse è davvero questo il vero destino degli eroi: farsi da parte in un angolo nascosto, dopo aver regalato una luce abbagliante, anche su un prato verde. Risuona il numero tre, Diego: il numero che, in molti, chiamano della perfezione. E non poteva essere altrimenti, nel festeggiare il trionfo degli azzurri: perché in questa cavalcata senza rivali, in tanti, io per primo, abbiamo sentito la forza del tuo cuore e della tua presenza, della tua perfezione trasferita ai ragazzi di Spalletti. Perché hai amato follemente Buenos Aires, la città di Jorge Luis Borges, l’infinito poeta che come te aveva i suoi universi paralleli, i suoi labirinti, i suoi fervori: ma Napoli ti ha preso l’anima e le vene, ti ha trascinato in un vortice di follia e di bellezza, ti ha venerato come un figlio, un figlio capace di portare una città-mondo e una squadra-universale al centro di ogni attenzione, di ogni invidia. Da New York a Zurigo, da Sidney a Rio de Janeiro il tuo nome rimbalzava nei sospiri, nell’allegria e nei sorrisi dei napoletani partiti per un sogno, per un tormento, per una ipotesi. Ricordo quando Piero Dardanello, amato direttore di Tuttosport, mi mandò, in quell’incantato luglio del 1984, a Barcellona. Lasciavi la Spagna per venire in Italia, a Napoli, in quello che era, in assoluto, il campionato più bello del mondo, quello degli assi mundial di Bearzot, il Vecio narrato da Giovanni Arpino, e di una moltitudine di stranieri di abbagliante classe. Avevi 24 anni e la voglia di trasformare quella tua nuova avventura in uno scrigno di meraviglie e di stupori. Dopo pochi giorni, ti chiesi: “Come farai, Diego, a superare la nostalgia per Baires?”. La tua risposta fu un lampo poetico, racchiuso in quella tua risata leggera, a girasole: “Mi basterà spalancare la finestra e guardare il mare di Napoli”.
Lo stadio porta il tuo nome, e non poteva che essere lì la festa più bella, in tuo onore. Nel recupero di quelle prime volte all’insegna del tuo talento, di quei gol da sembrare persino assurdi e impossibili, come quella punizione alla Juve: il colpo di un mago, l’ennesimo, variegato tassello di quello che è oggi un canto popolare, l’inno alla tua gloria, dai quartieri spagnoli a Posillipo, nelle periferie dove donne e uomini coraggiosi lottano per la legalità, per il futuro dei giovani. E un pallone, un semplice pallone, unisce e non divide. È riscatto, è letteratura, è condivisione.
Il tuo Napoli ha disputato un torneo impeccabile; e un giocatore, Diego, ti avrebbe divertito: il georgiano Khvicha Kvaratskhelia. Dribbling funambolici, degni di un Mané Garrincha, di un George Best, di un Gigi Meroni, giocate folgoranti e sorprendenti. Quelle che piacevano a te.
Ora ti saluto, Dieguito. Ma non smetterò mai di raccontare di te e di Pablito, di Pietruzzu e di Gai, di tutti quei giocatori che hanno accompagnato la mia carriera e, soprattutto, la mia vita. No, non siete mai andati via. Riesco ancora a vedervi: voi in campo, io in tribuna stampa. Ed avevamo la giovinezza, così leggera, così assoluta, a prenderci per mano.

Darwin Pastorin

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