
Premio Morrione: le voci dei finalisti, tra rigore, fiducia e lentezza del racconto
Stasera, dalle ore 21 alle ore 23, si svolgerà la serata finale della quattordicesima edizione del Premio Roberto Morrione per il giornalismo investigativo, promossa dall’Associazione Amici di Roberto Morrione in collaborazione con la Rai.
La serata assegnerà non solo il Premio Morrione, ma anche il Premio Riccardo Laganà (dedicato ad inchieste a tema ambientale), il Premio Baffo Rosso, il Premio Libera Giovani e il riconoscimento “Testimone del Premio Roberto Morrione”.
Conducono la serata la giornalista investigativa della Rai Giulia Bosetti e lo scrittore e autore radiofonico Marino Sinibaldi, membro dell’Associazione Amici di Roberto Morrione. Insieme ai finalisti e vincitori, saranno presenti numerosi ospiti dal mondo del giornalismo, delle istituzioni e dell’associazionismo: quali la portavoce di Carta di Roma Paola Barretta, il presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti Carlo Bartoli, il presidente della Fnsi Vittorio Di Trapani, il segretario generale dell’UsigRai Daniele Macheda, il consigliere d’amministrazione Rai Roberto Natale, la vicedirettrice Rai News 24 Cristina Prezioso, la direttrice di Radio Bullets Barbara Schiavulli, la copresidente di Libera – Associazioni, Nomi e Numeri contro le Mafie Francesca Rispoli e il presidente dell’Ordine dei giornalisti del Piemonte Stefano Tallia.
La serata sarà arricchita dalle vignette dell’illustratore Mauro Biani e dalle musiche della cantautrice Erica Boschiero, e sarà accessibile anche con traduzione nella Lingua dei Segni.
Il Premio offre ai progetti finalisti un contributo di 5.000 euro da impiegare nella produzione dell’inchiesta, e alle inchieste realizzate la possibilità di diffusione su Rai News 24, Rai Radio 1 e Rai Play Sound.
A seguire, presentiamo alcuni dei progetti finalisti e la loro visione del giornalismo investigativo: dalla fiducia con le fonti alla lentezza del racconto, dalla rigorosa metodologia scientifica alla forza dell’audio-podcast.
Dora Farina e Marianna Donadio – Niente parole dolci per lə giornalistə
Finaliste nella categoria video-inchiesta, Dora Farina e Marianna Donadio riflettono su un tema spesso trascurato nel giornalismo d’inchiesta: il rapporto con le fonti, il tempo e la responsabilità. In questo modo ci offrono un “dietro le quinte” dell’inchiesta che mette al centro il tempo, la cura, la rete di sostegno e il rispetto per chi decide di mettersi in gioco.
Marianna: Crediamo che da questo punto di vista siano sempre preferibili i lavori con scadenze più ampie, soprattutto quando sono coinvolte fonti che necessitano di tempo per costruire un legame di fiducia. Allo stesso tempo una buona giornalista forse a volte deve imparare anche a selezionare le cose da non dire. Far uscire una notizia che può mettere in difficoltà una fonte è una responsabilità che ci si può prendere solo con il giusto tempo e le giuste precauzioni. Nel nostro lavoro, confrontarci con persone sul campo ha voluto dire anche informarci sulle loro condizioni e sui modi in cui potevamo essere loro d’aiuto al di fuori degli scopi della nostra inchiesta. Questo tipo di rapporto necessita tempo ed è aiutato dall’esistenza di una rete composta di colleghi, legali e se necessario forze dell’ordine che possano rispondere alle esigenze delle fonti più a rischio lì dove noi non riusciamo ad essere bastevoli.
Dora: Costruire fiducia significa allontanarsi il più possibile da una logica estrattivista del giornalismo: le nostre fonti, le persone che decidono di raccontarsi, non sono funzionali ad un lavoro ma sono parte di quel lavoro. Per questo usare un linguaggio chiaro e rispettoso è fondamentale per costruire fiducia. Ad esempio abbiamo sempre raccontato gli obiettivi dell’inchiesta, il percorso previsto, le potenziali implicazioni, come verranno usate le dichiarazioni. Abbiamo mantenute aggiornate le fonti sullo stato d’avanzamento dell’inchiesta, instaurando un rapporto che non si esaurisce dopo la raccolta di ciò che ci è utile. Abbiamo dimostrato discrezione assoluta sulle identità e sui dettagli sensibili, spiegando come e perché le informazioni raccolte saranno protette, ad esempio utilizzando delle app di messaggistica alternative per tutelare la privacy dell’altra persona. Allo stesso tempo ascoltare una fonte non significa non interrogarla, bensì raccontare quella realtà attraverso gli occhi di chi la vive. Perché poi sta tutto qui, nel presidiare i territori per denunciare ciò che non va e per pensare anche insieme ad un’alternativa possibile. Tutto questo ha influito sul nostro lavoro perché l’inchiesta è un lavoro lento, che richiede appunto cura e pazienza anche nei tempi di pubblicazione. In questo anno (da quando abbiamo presentato la candidatura per il Premio Morrione ad oggi) abbiamo iniziato un dialogo costante e continuo, che ci ha permesso anche di intessere una rete di rapporti. Lo scenario cambia quando si ha a che fare fonti che si trovano in Israele, a Gaza o in Cisgiordania: persone che oscillano tra il bisogno di raccontare e quello di sicurezza, persone deluse dal racconto internazionale sul genocidio. E lì ti rendi conto che loro ti stanno dando una grande responsabilità.
Marianna: Abbiamo avuto la possibilità di avere del materiale dalla Cisgiordania proprio perché abbiamo avuto il tempo di curare un rapporto e di avviare una collaborazione con un reporter locale che è stato anche una delle nostre fonti. Avviare questo processo in un contesto come la Palestina ci ha richiesto il tempo di cercare la persona a cui rivolgerci e presentarci sia da un punto di vista professionale che umano. La collaborazione è stata poi interrotta quando le cose sono diventate più rischiose ma siamo ancora in contatto.
Novella Gianfranceschi e Niccolò Palla – Democracy dies in darkness
Vincitori della seconda edizione del premio Laganà, dedicato alle inchieste ambientali, Novella Gianfranceschi (con cui abbiamo parlato) e Niccolò Palla propongono un racconto che parte dal rigore scientifico per arrivare all’umanità delle storie.
Tu hai una formazione in biologia e ti occupi da tempo di temi ambientali, come hai operato il passaggio — dal campo della divulgazione scientifica e ambientale alla conduzione di un’inchiesta giornalistica approfondita come quella premiata? Quali competenze “da scienziata” ti sono risultate più utili nel giornalismo investigativo, e quali invece hai dovuto acquisire ex novo?
Il passaggio dalla divulgazione alla realizzazione di un’inchiesta giornalistica è stato graduale. Negli anni ho imparato — anche grazie alla Scuola di giornalismo Walter Tobagi — gli strumenti del mestiere. Poi mi sono formata nella redazione di IrpiMedia, testata italiana indipendente che si occupa di giornalismo investigativo. La biologia mi ha insegnato a osservare i fenomeni con rigore, a cercare le cause dietro gli effetti, ad analizzare i dati e a non fermarmi alle apparenze. Sono competenze che, in qualche modo, tornano identiche nel giornalismo d’inchiesta, dove il metodo scientifico si traduce in metodo giornalistico. La differenza sta poi nel riuscire a trasformare le informazioni raccolte in racconto: trovare una lingua che renda accessibili temi complessi e, al tempo stesso, faccia emergere la dimensione umana delle storie.
Nel tuo “diario” del progetto scrivi che «fare un’inchiesta non è solo analizzare, incrociare dati o smascherare. È imparare a restituire valore ai luoghi e alle persone». Qual è stato per te il momento o il luogo dell’inchiesta in cui ha sentito concretamente questa «restituzione di valore» e come quel momento ha influenzato la direzione finale dell’inchiesta?
In Senegal abbiamo attraversato alcuni villaggi della regione della Casamance, una delle più povere del Paese. Sono luoghi dove non c’è quasi nulla e dove sembra non esserci possibilità di futuro come lo immaginiamo in Occidente. È una vita diversa, dignitosa, ma non si può avere la pretesa di chiedere a chi vive lì di restare, perché molti di noi non lo farebbero. Quando poi, a Milano, abbiamo incontrato un giovane senegalese proveniente da uno di quei villaggi — che aveva attraversato il deserto, subito torture in Libia e affrontato il Mediterraneo — ho capito davvero cosa significa “restituire valore”. Mentre parlava, con fatica, della sua storia passata, e allo stesso tempo mostrava la serenità di chi sta costruendo una nuova vita in Italia, mi è stato chiaro che dietro ai numeri degli sbarchi ci sono persone. Persone che non vanno raccontate solo come vittime: hanno una storia, una voce e un valore che non riguarda solo il viaggio che hanno affrontato. La maggior parte degli articoli di giornale, però, non riesce a restituire questa complessità, ma quando un lavoro giornalistico più ampio riesce a farlo, è proprio lì che si riesce a raccontate l’essenza della questione.
Chiara Garbin e Marco Castellini – podcast d’inchiesta
Finalisti nella categoria radio-podcast, Chiara Garbin (con cui abbiamo parlato) e Marco Castellini affrontano il racconto d’inchiesta in un formato che richiede rigore narrativo e attenzione all’ascoltatore. Questo progetto dimostra come l’innovazione del mezzo possa diventare veicolo di qualità, ascolto e protezione delle persone raccontate.
Chiara, tu racconti che, durante gli studi in giurisprudenza, sei entrata negli uffici giudiziari e hai iniziato a leggere fascicoli ― ma poi hai deciso che non volevi solo “esserci” dietro alle quinte, bensì raccontare le storie che quei fascicoli celavano. Qual è stato il momento-chiave in cui hai compreso che il tuo posto non era nel “dietro le quinte” ma nel giornalismo d’inchiesta? E come hai affrontato il salto da studente di giurisprudenza a giornalista investigativa?
Il punto di svolta è arrivato quando ho capito che, leggendo le carte dei processi, mi trovavo sempre davanti a una storia con un finale già scritto — descritta entro i confini un po’ algidi e assolutamente rigidi (ed è giusto che sia così, intendiamoci) che il diritto impone. Mi sono resa conto che, in realtà, avrei voluto far parte di quelle storie, influenzarle, essere in qualche modo tra quelle righe. Innanzitutto, perché il giornalismo d’inchiesta è anche questo: un modo per provare a plasmare il mondo, per far sì che — attraverso l’attività di watchdog tipica del giornalista — qualcosa possa cambiare. E poi per un ulteriore aspetto: la scelta delle parole. Volevo avere l’opportunità di essere io a poter scegliere minuziosamente quali termini utilizzare, per dare sfumatura, per veicolare il messaggio che secondo me meglio esprime la realtà che racconto. Perché la selezione linguistica è una parte fondamentale del mestiere: un aspetto che se è ben fatto è impercettibile, ma che fa tutta la differenza.
Nel contesto del premio Morrione, partecipi con un progetto podcast/inchiesta audio (categoria radio-podcast) insieme a Marco Castellini, un formato con regole e dinamiche diverse rispetto a video o stampa. Quali sono state le principali sfide tecniche, narrative o emotive per raccontare l’inchiesta in audio? E quali opportunità hai scoperto (o creato) grazie al mezzo podcast che magari non avresti avuto con altri formati?
Il podcast è uno strumento potentissimo, perché ti permette di guidare in maniera assoluta lo sguardo – in questo caso l’orecchio – dell’ascoltatore. Tutto il resto scompare, non è possibile concentrarsi su altro. Ma proprio per questo occorre ancor più cura nella scelta della prospettiva da proporre, perché il pubblico si affida completamente alla tua voce. Per cui occorre dosare con attenzione gli aspetti nozionistici a quelli emotivi di racconto, in modo da rendersi interessanti senza perdere il rigore giornalistico, da essere coinvolgenti senza perdere la misura. E poi, un’altra grande opportunità del formato audio è la tutela delle fonti più sensibili: spesso la sola voce, senza l’immagine, permette agli intervistati più vulnerabili di sentirsi più al sicuro — e di raccontarsi con maggiore libertà.
Daman Singh, Bianca Turati e Iman Zaoin – L’inchiesta senza fretta
Finalisti nella categoria video-inchiesta, il trio Singh (con cui abbiamo parlato), Turati e Zaoin parla della lentezza come forma di rispetto e profondità. La loro riflessione ci invita a considerare la qualità dell’inchiesta: quando si rinuncia alla velocità in favore dell’approfondimento, si mette al centro la dignità delle storie e delle persone.
Nel “diario” di inchiesta scrivete che «non si va di fretta quando si fa un’inchiesta». Come si concilia questo con i tempi attuali dell’informazione sempre più rapidi?
Due persone su tre del nostro gruppo provengono dall’ ambiente accademico, io e Bianca siamo dottorandi di ricerca in sociologia e antropologia e Iman è fotografa e lavora nella cooperazione internazionale. Abbiamo fatto la stessa magistrale – migration studies – e anche per questo forse il nostro approccio è simile. In accademia i tempi sono sicuramente diversi, che sono appunto tempi lunghi e infatti la cosa più difficile infatti è stata questa. Dal punto di vista del giornalismo, ci sono delle imposizioni temporali diverse: quello che abbiamo capito che è molto importante per noi è mantenere le relazioni anche quando non si è davvero sul campo, se l’informazione veloce non è di qualità, per noi tanto vale rinunciare o ridurre le “notizie”.
Tu e il tuo team parlate nel diario di inchiesta di aver “immerso completamente” la vita nel lavoro sul campo e sentito «la responsabilità di raccontare le verità emerse». In che modo questa immersione – emotiva, personale, sul territorio – ha cambiato il tuo rapporto con il giornalismo investigativo rispetto al passato? E qual è, secondo te, il confine tra “essere partecipanti” e “restare osservatori” quando si lavora su storie così forti?
Da una parte, anche volendo diventare partecipanti, o diventandolo dal punto di vista emotivo, comunque si rimane osservatori, perché non si co dividono le situazioni in cui le persone vivono, o almeno fino ad un certo punto. Quindi si è sempre osservatori, che lo si voglia o no, o che si intreccino dei rapporti o meno. e questa è un pochino la differenza dall’ambiente accademico, soprattutto riguardo all’approccio metodologico che io e bianca utilizziamo nelle nostre ricerche – adottiamo un approccio collaborativo – proprio perché quest’ultimo avendo tempi lunghi di immersione nel campo può davvero portare dei miglioramenti alle comunità con cui si lavora. Il nostro punto, più che essere partecipanti, è avere un impatto positivo o perlomeno non dannoso per le comunità e le persone con cui abbiamo a che fare. Direi che non abbiamo grande esperienza in giornalismo investigativo, quindi non possiamo rispondere all’ultima domanda.
