Voi con queste gonnelline mi provocate
L’inchiesta di Cavaglià Prandi e Candioli per IRPI MEDIA
di Carla Piro Mander
«Voi con queste gonnelline mi provocate». È profondamente intrisa di sessismo la frase che dà il titolo all’inchiesta condotta per Irpi Media da Francesca Candioli, Roberta Cavaglià, Stefania Prandi, le tre giornaliste italiane freelance che per otto mesi hanno hanno raccolto testimonianze di molestie e discriminazioni all’interno dei 10 master di giornalismo riconosciuti dall’Ordine esistenti in Italia. 239 testimonianze di discriminazione – relative agli ultimi 10 anni di corsi – che riportano il clima di atavico convincimento che le donne, con il loro stesso esistere, debbano essere responsabili delle molestie che vengono loro portate. Un costume culturale intollerabile che Cavaglià Candioli e Prandi sono riuscite a documentare con un lavoro minuzioso leggibile qui e che non si ferma. Il collettivo che formano (leggi qui) si è dato infatti l’obiettivo di indagare il problema delle molestie sessuali e degli abusi di potere nel giornalismo italiano e per raccogliere la voce di quante non sanno con chi parlare o come denunciare hanno diffuso un questionario (qui) che può essere compilano anche in forma anonima.
Il collettivo ha pubblicato anche un vademecum redatto dall’avvocata penalista Virgina Dascanio, utile a riconoscere le forme di molestia nei luoghi di formazione, spesso così sfumate e insinuanti da essere scambiate per semplici eccessi di apprezzamento. Mani sui fianchi, occhi nella scollatura, visi troppo vicini, frasi invasive. Tutto quello che il sessismo dominante ha da sempre liquidato con il classico «volevo solo essere gentile».
Per approfondire abbiamo parlato con Francesca Candioli, una delle tre autrici dell’inchiesta.
Candioli, qual è l’impressione che ricavate, lei e le due colleghe – Cavaglià e Prandi – al termine del lungo lavoro di inchiesta che vi ha portato a pubblicare il form sulle molestie all’interno delle Scuole di giornalismo?
«La nostra inchiesta è stata ripresa da diverse testate e si è diffusa anche sui social. Abbiamo già segnali di un possibile impatto. Subito dopo la pubblicazione, Il presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, Carlo Bartoli, ha convocato una riunione con i direttori delle dieci scuole di giornalismo, di cui parliamo nel pezzo. Durante questo incontro è stata ribadita la necessità di intensificare la vigilanza e promuovere ogni iniziativa utile a prevenire e reprimere episodi di questo genere. È stato inoltre sottolineato che qualora dovessero emergere nuovi casi nelle scuole, dovrà esserne data immediata comunicazione all’Ordine nazionale. Inoltre sappiamo che, sempre l’Ordine, sta lavorando per predisporre una policy allo scopo di fissare regole comportamentali da osservare da parte dei docenti e dei tutor dei Master di giornalismo presenti sul territorio».
Pensa che l’atto della molestia sia collegato a situazioni di precarietà professionale o che sia trasversale, impregnante e in qualche modo ancora intrisa la cultura sociale contemporanea?
«Le molestie sono dovute a diversi fattori. Tra questi ci sono la disparità di potere e una cultura sessista che riguarda tutta la società. Sicuramente la precarietà aumenta la disparità di potere. Inoltre gli studi di riferimento indicano che esistono dei settori più inclini di altri alle molestie verbali, sessuali e alla discriminazione di genere e uno di questi è il giornalismo. Secondo diverse ricerche internazionali le redazioni di giornali, radio e televisioni sono tra i luoghi di lavoro col più alto tasso di molestie sessuali e sessismo (da un sondaggio dell’International Women’s Media Foundation, quasi due giornaliste su tre hanno dichiarato di aver subito molestie durante la loro carriera). Nella fase della formazione è auspicabile e doveroso che certe dinamiche non vengano riprodotte, nemmeno in forme lievi. Ricordiamoci che le studentesse sono particolarmente vulnerabili perché la sperequazione di potere tra formatori e alunne è più accentuata di quella che c’è, ad esempio, tra un caposervizio o un caporedattore e una redattrice con un contratto stabile».
L’assenza di denunce rende più complesso l’intervento. Come vi spiegate il fatto che nessuna delle 239 persone sentite abbia sporto una denuncia o abbia parlato con qualcuno?
«Ci sono tanti motivi per cui le studentesse che subiscono molestie decidono di non denunciare. Questa è una delle domande che più volte ci è stata sollevata, ma invito a girarla e a chiedersi: perché un caporedattore si arroga il diritto di commentare il corpo di una stagista? Perché un docente di una scuola di giornalismo decide di toccare senza consenso la coscia di una studentessa? Le molestie non possono essere lette solo dalla parte di chi subisce e dovrebbe reagire, ribellandosi e denunciando, con processi che sappiamo essere tutt’altro che facili. La denuncia ha un costo non solo economico, ma anche emotivo. Inoltre, se allarghiamo la prospettiva, come spiega Patrizia Romito, psicologa sociale, docente in pensione all’Università di Trieste, le molestie sono uno strumento per mantenere le donne in una posizione di subordinazione. L’ostilità con cui molti uomini reagiscono a quella che considerano un’intrusione nei loro domini, suggerisce che spesso la natura delle molestie è legata al potere. Chi subisce molestie sessuali nella maggior parte dei casi tende a mantenere il silenzio per diversi motivi: scarsa consapevolezza della gravità dell’offesa, senso di vergogna e timore di ritorsioni sul lungo periodo. A maggior ragione in un settore chiuso come quello del giornalismo italiano: le nostre fonti hanno provato sensi di colpa; hanno avuto paura delle conseguenze di una loro eventuale denuncia; hanno pensato che non sarebbero state credute. Alcune hanno normalizzato la situazione perché si crede, come alcune hanno spiegato, che “il mondo funzioni così”. Come ricorda Kathleen Cairns: “Nel patriarcato le donne imparano ad accettare che i loro corpi, il loro essere donne, la loro semplice presenza, siano responsabili del comportamento degli uomini nei loro confronti”».
Crede che strumenti di denuncia in grado di tutelare il denunciante potrebbero servire? (es, whistleblowing). Che tipo di strumento ritiene potrebbe rivelarsi valido, o sarebbe utile, nell’azione di contrasto a un modello culturale ancora molto sessista?
«Sì assolutamente. Tra l’altro la stessa figura del whistleblower è un tipo di fonte che ci ha aiutato molto per realizzare un’inchiesta così delicata, che non poteva in nessun modo portare una persona ad esporsi senza conseguenze. Inoltre in base allo spaccato che è emerso nella nostra inchiesta, ci siamo accorte come di fatto manchi un apparato efficace in grado di raccogliere eventuali segnalazioni di molestie. Nelle università esistono degli sportelli, ma se parliamo di scuole di giornalismo servirebbe un servizio ad hoc. Si potrebbe pensare, ad esempio, ad una figura o più figure, che non siano giornalisti o docenti, ma che abbiano esperienza in fatto di molestie e conoscano il mondo della comunicazione, che si pongano in ascoltano e poi riferiscano direttamente ai vertici universitari e all’Ordine nazionale dei giornalisti. Per sentirsi sicure nel denunciare situazioni delicate servono ambienti protetti e figure con una formazione specifica».
Che tipo di atteggiamento vi hanno riservato le Scuole quando avete chiesto un confronto in merito al tema dell’inchiesta?
«Tutte le scuole di giornalismo hanno accolto la nostra richiesta di confronto, la stragrande maggioranza con incontri che hanno richiesto una disponibilità di tempo non scontata. Crediamo che questo sia un buon segnale perché dimostra che, nonostante quel che è emerso dall’inchiesta, esiste la possibilità di un cambiamento al quale tutti possono contribuire. Di fronte alle testimonianze che abbiamo raccolto, li abbiamo visti sorpresi e molto dispiaciuti: erano sicuri di lavorare con persone di cui potersi assolutamente fidare. C’è stato da parte di tutti l’impegno a migliorare le cose, monitorare la situazione e a lavorare ulteriormente sulla prevenzione».