
Aggregare e cambiare. Come il giornalismo può sfruttare l’intelligenza artificiale
Aggregare e cambiare. Sono queste le due cose che il giornalismo deve fare se vuole sopravvivere alle big tech. Come non era mai successo prima nella storia, la tecnologia sembra oggi essere diventata un freno al giornalismo. Forse è arrivato il momento di cambiare prospettiva. Se ne è parlato la settimana scorsa a Bruxelles al Connact, un momento di confronto per la comunità italiana nella capitale europea, organizzato dalla Fondazione Articolo 49, con imprenditori, rappresentanti di categoria, europarlamentari e funzionari delle istituzioni nazionali e della Commissione Europea.
Tra i tavoli di confronto, uno dedicato all’editoria. Il mercato italiano della pubblicità, ha spiegato Gina Nieri, del Cda di MediaForEurope (ex gruppo Mediaset) vale circa undici miliardi di euro. Metà finisce nelle tasche delle grandi piattaforme di Internet, come Google e Facebook. Il resto alimenta media tradizionali come Rai, Mediaset, giornali e radio. Una situazione che sta soffocando chi produce contenuti, ha sottolineato Federico Silvestri, direttore generale Media & Business del gruppo 24 Ore, con articoli che vengono condivisi online insieme ai PDF di interi quotidiani, insieme a molti altri contenuti di informazione di qualità, che tolgono visibilità alle testate originali.
Il giornalismo oggi sembra contrapposto alla tecnologia. Un avvitamento curioso, se consideriamo che il giornalismo si è sempre alimentato di cambiamento tecnologico. Il telegrafo ha creato le agenzie di stampa, la rotativa ha dato vita ai grandi quotidiani, la radio ha dato vita alla comunicazione broadcast in tempo reale, la televisione ha fatto nascere i TG e ha rivoluzionato il modo di raccontare il mondo. Oggi siamo di fronte a un’altra trasformazione. I mezzi cambiano, il linguaggio evolve, e il giornalismo fatica a trovare la sua strada in questo nuovo ecosistema.
Al momento, il problema più pressante per gli editori è il copyright. Ma c’è un nodo ancora più grande: riconquistare i giovani. I nativi digitali hanno abbandonato quasi del tutto quelli che chiamano “legacy media”. Se fosse per loro, le testate più blasonate chiuderebbero domani.
Allora, come affrontare questi due problemi? Proviamo a ipotizzare due strategie.
La prima è quella di ripensare la distribuzione. La storia recente ci offre una lezione preziosa. Negli anni 2000, l’industria musicale era in ginocchio: l’avvento degli MP3 e del peer-to-peer sembrava una tempesta perfetta. Per anni si è parlato della fine imminente della discografia. Poi Steve Jobs ha lanciato l’iPod e iTunes, e ha creato un mercato completamente nuovo. Successivamente, piattaforme come Spotify hanno trasformato il settore grazie a modelli di abbonamento e aggregazione, remunerando i produttori in base al consumo. Lo stesso è successo con il cinema. Ricordo gli anni universitari, quando scaricare film era lo sport preferito dagli studenti. Fast forward. Oggi c’è Netflix e gli altri servizi di streaming e i ragazzini non sanno neanche cosa sia il peer-to-peer. Qual è la lezione? L’aggregazione con modelli di abbonamento tutto incluso, che semplificano l’accesso ai contenuti, funziona. È ragionevole aspettarsi che presto o tardi anche l’informazione prenderà questa strada. Ora, la domanda è: l’Italia e l’Europa aspetteranno che l’ennesimo colosso americano metta sul tavolo una nuova piattaforma, remunerandoci il minimo indispensabile e monopolizzando il mercato, oppure saranno in grado, per una volta, di creare una piattaforma in casa? Occorre riprendere il controllo della distribuzione prima che sia definitamente troppo tardi, altrimenti non potremo che diventare produttori di contenuti per distributori terzi. Naturalmente il problema è quello di mettere d’accordo gli editori. Ma chi oggi vuole entrare nel mercato editoriale deve partire dalla distribuzione. Concentrarsi solo sui contenuti significa condannarsi a essere sempre più vulnerabili.
La seconda cosa urgente da fare è imparare a parlare una nuova lingua. I giovani non leggono articoli lunghi, tantomeno scritti nel linguaggio che siamo abituati a considerare giornalistico. Cercano racconti personali, diretti, con note di umorismo. Un approccio che spesso questo porta a contenuti leggeri e superficiali, quando non vere e proprie fake news. Ma non tutto ciò che circola sui social è da buttare. Sta emergendo una generazione di divulgatori capaci di mescolare leggerezza e qualità, utilizzando un linguaggio nuovo. La BBC, come sempre un passo avanti, sta provando ad agganciare questo treno con il suo canale Instagram: contenuti di qualità raccontati in modo immediato e coinvolgente. Questo è il futuro. Se vogliamo recuperare il terreno perduto, dobbiamo imparare a parlare ai giovani con le loro parole, senza perdere di vista la sostanza.
E l’intelligenza artificiale? L’IA può essere il motore che consente di fare tutto questo, permettendo di adattare rapidamente e su larga scala i contenuti ai diversi formati: trasformare un video in un articolo, un podcast, o un post per i social sta diventando un processo automatizzabile. Questo può liberare risorse, permettere ai giornalisti di concentrarsi sulle storie, sui contenuti, sul linguaggio giusto. Sul recupero del rapporto perduto col pubblico.
Fabio De Ponte